In Italia anglicismi e neologismi sono di casa, ed anche le istituzioni si lasciano volentieri coinvolgere nell’opera di rinnovamento dell’idioma nato circa un millennio fa sulle rive dell’Arno.
Gli schemi d’intervento istituzionale vanno dalla c.d. “inversione concettuale” (un provvedimento viene presentato con i caratteri esattamente opposti a quelli effettivi) come la “semplificazione”, al metodo del “nome d’arte” (si nasconde l’identità di un istituto affiancandogli uno pseudonimo) sul modello della “portabilità”, senza che possano rilevare gli effetti collaterali di tale attività.
Qui ci si occuperà della c.d. “evoluzione semantica”, definibile come categoria opposta al neologismo, con la quale non si forgiano nuovi termini, ma si cambia il significato di quelli esistenti. L’analisi verte sull’evoluzione del concetto di concorrenza, in vista della sua applicazione alle professioni intellettuali, in particolare al notariato.
Secondo semantica “concorrenza” deriva da “concorrere” e a sua volta da “concorso”, concetti tutti evidentemente di per sè stessi incompleti e indefiniti, se non seguiti da un termine di relazione o da un giudizio di valore.
Tuttavia, a differenza del neologismo (al più incomprensibile), questa operazione evolutiva presenta i caratteri dell’imbroglio. Nulla infatti consente, come invece si propone, di elevare “concorrenza”, “concorso” e “concorrere” al rango di valori positivi in senso assoluto.
La concorrenza invece può essere lecita o illecita, il concorrente può essere leale o sleale, il diritto penale prevede il concorso nel reato.
E’ noto che, se il fenomeno concorrenziale modulato può essere funzionale allo sviluppo, un indiscriminato ricorso alla deregolamentazione provoca effetti più gravi di un monopolio.
Basti guardare al tipo di concorrenza sviluppatosi in Cina dopo l’autoritarismo con il lavoro umano ridotto a fattore di produzione, o alla nuova Russia di Putin, ove l’economia di mercato incontrollata porta alla supremazia del più forte.
Questo tipo di concorrenza si presta più di altri ad essere “funzionalizzato” ad interessi particolari.
In Italia l’evoluzione del termine è proposta a meri fini promozionali.
Un’attenta analisi mostra che la “concorrenza” oggi invocata a livello istituzionale coincide in realtà col principio costituzionale di “libera iniziativa economica”, ed è quindi coincidente, al più, con quello di “concorrenza leale”.
In effetti, così individuato, questo termine identifica i valori fondanti del Paese, legati già soltanto all’esistenza dello Stato democratico.
Quando un esecutivo guarda più all’impatto mediatico che al programma e la politica parlamentare è ridotta a slogan, il risultato sono tali assurdità.
Assurdità rinvenibile soprattutto verificando le possibili ripercussioni su interi settori dell’attività umana nel Paese.
Non si vede quale interesse pubblico giustifichi un’idea di “concorrenza” espressa in termini di valore positivo così assoluto; forse una delle finalità dell’evoluzione è quella di farne applicazione ai settori che, in difetto, ne sarebbero estranei.
Il senso di ingiustizia che coglie gli addetti ai lavori diviene poi rabbia, davanti all’inopportuna quanto inconsueta tempestività con cui il Garante coglie l’occasione di dimostrare la sua esistenza utile, quando dovrebbe avere altre occupazioni.
Quale “autorità indipendente”, l’Antitrust dovrebbe controllare l’abuso di posizioni dominanti, non relazionare governi e parlamenti in merito alla poca concorrenza esistente nelle professioni; viviamo in un Paese che accoglie sostanzialmente un duopolio bancario e televisivo, un oligopolio nel settore carburanti, diversi monopoli nei settori energetico, telefonico, automobilistico.
Dal punto di vista sistematico la nostra legislazione si è sempre occupata di concorrenza nel suo aspetto patologico; l’obiettivo è sanzionare le devianze del fenomeno, i comportamenti sleali in grado di viziare la competizione ed il regolare svolgimento del traffico giuridico.
La legge italiana contempla il fenomeno “concorrenza” in termini tutt’altro che positivi, imponendone a volte il divieto, contenendola nei limiti che emergono dall’intero Titolo X - Libro V del codice civile.
Impotente di fronte ai cartelli ed agli accordi multinazionali, l’Antitrust diviene paladino del principio di concorrenza assoluta nel mondo professionale, senza alcun interesse sistematico e senza logica: non si rinviene alcun accenno nella corposa produzione dell’antitrust alla possibile diversità tra il principio di concorrenza di tipo commerciale e quello proprio delle professioni.
Cerchiamo allora di chiarire le idee, in termini elementari.
Nel commercio la concorrenza sortisce effetti positivi se si garantisce da un lato l’impresa che a costi inferiori fornisce lo stesso prodotto ovvero un prodotto analogo ma con miglior quoziente prezzo-qualità; dall'altro, se si controlla che l'impresa che riesce in tale risultato lo fa nel rispetto delle stesse regole e subendo i medesimi controlli di quelle che non vi riescono. Se una delle due condizioni non si verifica, la concorrenza diventa illecita e ingiusta.
Nei servizi professionali di natura intellettuale, giuridici o umanistici, scientifici o tecnico - professionali un principio di concorrenza esiste e va tutelato, purchè si capisca che esso, per sua natura, ha una diversa accezione rispetto all’altro.
L'intelletto umano fornisce un prodotto che, per sua stessa definizione, è "diverso" da produttore a produttore.
Questo spiega perchè nel nostro ordinamento vige il principio immanente, confermato e ritenuto tale anche in qualsiasi disegno di riforma delle professioni, secondo il quale la prestazione intellettuale è rigorosamente individuale e la responsabilità professionale è rigorosamente personale.
Sull’effetto di una massiccia overdose di concetti e miti anglossassoni in combinato con la giusta dose di gusto (tutto italiano) per il processo sommario, ci si dimentica di Enron, dei mutui subprime, delle sette sorelle del petrolio, di Microsoft e di Coca Cola.
In tutto questo, ovviamente i veri profeti del disastro attuale, i cantori della dea concorrenza tacciono.
Esempio illuminante di cosa accadrebbe in caso di libero accesso alle professioni intellettuali senza competenze accademiche ed esami di stato, è rinvenibile proprio nella breve epopea degli “economisti autodidatti”.
Trattasi di movimento avviato verso l’inevitabile estinzione. Come tutti i movimenti brevi ma intensi (si pensi alla scapigliatura o al futurismo), esso è stato caratterizzato da grande forza comunicativa mista a buona dose di demagogia, oltre che a scarsa sostanza di argomenti. Va da sè che, come in tutti i movimenti brevi ma intensi, i suoi protagonisti, “gli economisti autodidatti” considerano il resto del mondo una massa di minorati mentali.
L’accesso incontrollato di tali personaggi agli organi di stampa più accreditati, che ha comportato osannanti genuflessioni da parte di politica ed istituzioni, ha prodotto la breve e sofferta esperienza dell’esecutivo Prodi.
Inopinatamente, la trimurti “libertà-semplificazioni-concorrenza” è riuscita comunque a far danni, consegnandoci un’Italia nella situazione più drammatica della sua storia unitaria, Caporetto e 8 settembre esclusi.
La libera fissazione delle tariffe professionali, introdotta da un decreto in forte odore di illegittimità, ha di fatto legalizzato le illegalità; peraltro già esistenti da molto tempo all’interno delle categorie professionali più numerose.
Al consumatore si racconta la favola del professionista che vale l’altro e lo si espone ad una selvaggia corsa al ribasso, che significa, incompetenza, inefficienza, furto autorizzato.
Vi è poi la grave questione dell’accesso alle professioni che, per rispondere alle improvvide affermazioni del garante, in linea di principio dovrebbe essere ristrettissimo, per assicurare a tutti i cittadini il massimo servizio possibile, sia per competenza che per assunzione di responsabilità.
Secondo il Garante, invece, tale accesso dovrebbe essere, di principio, libero e non controllato; in pratica tutti devono poter fare tutto, in barba agli studi, al superamento dei concorsi, ad un minimo di selezione, senza una parvenza di meritocrazia. L’opposto della concorrenza, in pratica.
Come è possibile allora, ci si chiede, che in Francia i Cassazionisti siano circa 1000, mentre in Italia decine di migliaia, a fronte di risultati opposti?
La verità è che la concorrenza nelle attività intellettuali “qualificate” va armonizzata con l’esigenza di garantire un prodotto “minimo” sufficiente a chiunque; questo lo si può avere solo attraverso selezioni il cui rigore sia direttamente proporzionale alle competenze richieste; altro che libero accesso.
La concorrenza nelle professioni va tutelata garantendo all’utente la più ampia, libera ed incondizionata libertà di scelta del professionista. Se uno studio legale mi offre assistenza contro il vicino di casa a 100 € è difficile per l’utente scegliere di spenderne 1.000 da un giovane e competente avvocato.
In un mondo professionale dominato dalla concorrenza di mercato, sarebbe legittimo inoltre servirsi dei procacciatori d’affari, giustificandosi così il professionista che raccatta la clientela grazie a mazzette e regalini sparsi a destra e a manca; nel mercato è pienamente lecito servirsi di “procacciatori” che propongono benefit, sconti, premi o altre elargizioni, come è pienamente lecito sviare la clientela, anche svilendo i prodotti dell’avversario. Si vuole lo stesso per le professioni?
Non si riesce invece ad immaginare l’applicazione di un criterio assoluto di libera concorrenza nella professione notarile. Procure, certificati, attestazioni, verbali di assemblea di società per azioni, testamenti, mutui ipotecari e contratti affidati alle cure del miglior offerente: allucinante.
Lo Stato delega una delle sue funzioni più rilevanti e complesse e attribuisce al notaio un compito fondamentale nel sistema processuale e probatorio, ma lo fa solo a seguito di una rigida selezione e imponendo una gravosa assunzione di responsabilità, che non ha eguali.
Sostenere che anche la funzione notarile debba essere sottoposta al principio di libera concorrenza commerciale, significa avere una certa confusione concettuale e mentale.
Confusione concettuale che si aggrava nel momento stesso in cui si solleva il dubbio che le norme deontologiche notarili siano armi affinate in ottica anticoncorrenziale. E qui sta un’altra, eclatante mistificazione della realtà.
Il vizio del ragionamento sembra ancora essere l’equazione notaio-profitti che ormai è un peccato d’infamia ontologico, mai commesso dalla stragrande maggioranza della categoria notarile, eppure cavalcato alla grande dall’antitrust e dalla decretazione Bersani in modo demagogico. Trattasi peraltro di atteggiamento sospetto, in quanto proveniente da una classe dirigenziale astrattamente in possesso di nozioni e cultura qualificate oltre che di dati ufficiali, che dovrebbe capire che tale peccato d’ingordigia, se vi è stato, è stato commesso proprio da parte di quella frangia di professionisti che si intende favorire.
E’ intellettualmente disonesto, inoltre, l’atteggiamento di disprezzo mostrato nei confronti dell’opera di rinnovamento disciplinare compiuta dalla categoria notarile.
Non cogliere il senso istituzionale e l’interesse pubblico sotteso alla normativa deontologica è deprecabile ma non impossibile; quando però, sulla base di voci di corridoio ed in assenza di documenti ufficiali, si instilla il dubbio che il tetto repertoriale possa dissimulare uno strumento anti-concorrenziale, si arriva alla vera e propria offesa gratuita.
Ciò che il sistema notariato cerca di garantire è una concorrenza semplicemente lecita.
Quella che lo Stato e le sue Autorità devono garantire, concludendo, non è solo – o in astratto - la “concorrenza”.
Quella che lo Stato e l’Autorithy hanno l’obbligo di garantire è una concorrenza innanzitutto lecita.
Va garantita e chiesta a gran voce una concorrenza che tenga conto delle regole e dei presupposti naturali e precipui di ogni settore di pubblico interesse come di diritto privato.
La concorrenza serve a liberare il cittadino nelle scelte purchè nelle stesse scelte egli sua tutelato e non ingannato dalla stessa legge.
Un cuscinetto a sfera non è un ricorso in cassazione.
Un’autoradio non è un atto di compravendita.
Una mattonella non è una visita oculistica.